“Ecce Mulier”: la colonna rotta e i frammenti sparsi

Quel giorno a Parigi — quanti anni fa? — all’improvviso aveva iniziato a piovere a dirotto e così, quasi senza accorgermene, mi ero ritrovata nella meravigliosa stazione del Musée d’Orsay.
Beh, approfittiamone, mi dissi, e partiamo una volta ancora verso per i mondi colorati degli artisti esposti qui dentro: ditemi, chi può mai stancarsi di vedere da vicino

Gauguin

Gauguin, Due tahitiane sulla spiaggia

Due tahitiane sulla spiaggia

Cezanne

Cezanne, Natura morta con mele e arance

Natura morta con mele e arance

o Degas?

Degas, Assenzio

Assenzio

E in effetti, nel giro di poche sale, già i vestiti e le scarpe bagnate erano dimenticati ed era dimenticato il tempo — nonostante il monumentale orologio che campeggia sulla navata di quella stazione. Finché, meraviglia dopo meraviglia, mi sono ritrovata alla soglia della “Sala Van Gogh”.
Là dentro, per quanto non fossimo in pochi, regnava un silenzio impressionante, come un velo denso che ti avvolgesse: era il silenzio del respiro trattenuto, del tempo e dello spazio quando (anche solo per un attimo) vanno perduti. Passo dopo passo, quadro dopo quadro, fluttuavo come dentro la placenta invisibile di un’emozione profonda e calda: l’Italiana, il Ritratto di Eugene Boch, la Chiesa di Auvers … E poi, senza sapere, mi sono ritrovata davanti a quell’Azzurro: l’azzurro ineffabile, infotografabile, inenarrabile del suo Autoritratto.
Dio mio …
Mentre il cuore batteva e si riscaldava come quando, dopo tanto tempo, si riabbraccia un grande amore, la mente si scioglieva dalla paralisi per mandarmi una visione chiarissima: quel museo era un tempio e lì dentro, in quella sala, eravamo nella sua parte più segreta e inaccessibile, quella in cui abitano gli dèi. Lì dentro, insomma, mi trovavo dove l’arte travalica i confini della bellezza per addentrarsi in un territorio più misterioso ancora.

Similmente tutti i quadri di Frida Kahlo sono ‘belli’, ma alcuni mi procurano il biglietto per entrare in quel mondo al di là dell’arte: fra questi c’è Columna rota.

FridaColonna

Una profonda lacerazione verticale del suo corpo permette di vedere che cosa c’è dentro, a sostenerlo. Al posto della colonna vertebrale, Frida ha dipinto un simbolo di antica ed eterna bellezza: la slanciata colonna di un tempio greco che, pur frammentata in più parti, tuttavia sta in piedi (anche con l’aiuto di un busto ortopedico che, dall’esterno, imprigionando il corpo, lo sostiene). Dappertutto la carne è martoriata da chiodi conficcati più o meno profondamente, eppure lo sguardo è il solito sguardo magnetico e altero di Frida: nemmeno le lacrime che scendono sanno offuscarlo. Per non parlare del capolavoro del suo seno, così pieno di vita e di sensualità maestosa: Ecce Mulier, viene da sussurrare, chinando a terra lo sguardo — Ecco Frida, la nostra terribile Musa.
All’incirca così si vede, nello specchio, anche Nina.
I giorni dei morti sono passati e nessuno li ha visti da vicino come lei (lo sappiamo); ma per fortuna l’hanno lasciata ancora qui, tra i vivi — come la balena biblica che risputò Giona sulla terra ferma. Si guarda allo specchio e pensa che, faticosamente certo, ma sta ancora in piedi: è tornata a fare la spesa, a mettere a posto la casa, a fare le prove per i prossimi concerti … Sì, sta in piedi ma, dentro, il tempio che fu il suo meraviglioso orgoglio è crollato in tanti frammenti. E quella sua bellezza antica originaria, ormai, pare perduta per sempre.
(Sospira, Nina, ma comunque, volgendo le spalle allo specchio, prende chiavi, portafoglio e cellulare, li infila nella borsa, esce di casa)